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 Corso Istruttore Metodica Yoga Ginnastiche UISP Salute Benessere a Lucca

(inizio 30/31 Gennaio 2021) posticipata alla riapertura delle palestre

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il giovedi dalle 20:30 alle 21:30 (Costanza 348 5703187)

 

Corsi e orari

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( settembre 2020 - Giugno 2021 )

 

I corsi sono organizzati secondo il protocollo applicativo Covid-19

 

Meditazione della Luna Piena

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Ogni Luna Piena

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presso il Centro, salvo indicazioni differenti.

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IN OTTEMPERANZA ALLE NORME COVID19, SI ACCEDE ALLA MEDITAZIONE SOLO SU PRENOTAZIONE TELEFONANDO AL 348 5703187.

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Tra il Sile ed il Gange      di Maurizio Fabris

Ci sono fiumi che sembrano nascere dal nulla, come se tanti sconosciuti rigagnoli si stancassero un giorno d’esser tali e decidessero di darsi un fisionomia univoca, vuoi per farsi rispettare, vuoi per trovare un momento di notorietà che li porti alla ribalta dell’orografia, per poter dire:

ecco quello che vedi sono io. Non cerco di competere con i grandi, ma di avere pari dignità di nome, d’essere chiamato fiume”.

Penso ad un fiume delle mie parti, il Sile , che nasce da tante risorgive che quando le vai a cercare ti sembra impossibile che da quelle polle d’acqua, che dopo essere scivolata dai monti sui piani argillosi profondi della pianura , per un improvviso riaffiorare di questi alla superficie, sbuffa nella sabbia, come quando al mare t’immergi in apnea e risalendo alla superficie, sfiati l’aria compressa nei polmoni per prenderne di nuova, possa poi nascere un fiume.

Tante polle disseminate in una zona paludosa chiamata “fontanassi”

Tanti respiri trattenuti nella corsa sotterranea che finalmente si liberano, si organizzano e si muovono cercando un alveo comune, attirati da una forza misteriosa che li porta al mare, dove abbandonare l’identità con tanto sforzo cercata .

Il Sile, la sua identità la consacra tra le mura di una città come Treviso.

Una città resa particolare proprio per i giochi d’acqua che dentro e fuori d’essa è in grado di creare, tanto da non passare inosservata agli occhi di Dante e finire citata in un canto della sua commedia

Una fama che lo accompagna fino all’estuario nella laguna veneta per cessare nell’anonimia del mare che non mostrerà gratitudine alcuna per il tributo d’acqua che gli avrà portato.

Su questo sono più riconoscenti gli uomini quando si presentano ricordando d’essere figli di tale madre e tale padre, a seconda se la discendenza sia patri o matriarcale, che poi nessuno può ignorare che un figlio ha un padre e una madre che a loro volta hanno un padre e una madre e così via e quindi il tuo esistere è ragione del loro, mentre non si è ancora sentito che un mare dica sono figlio di tal fiume o tal altro.

Sulle carte geografiche resta un breve momento di gloria, dalle sorgenti alla foce, se il cartografo non è stato disattento .

Oppure altri che hanno un percorso brevissimo pur avendo una nascita degna di tal nome.

Penso all’Oliero che sorge dall’ipogeo delle anonime grotte alla fine della Valsugana.

Raccoglie le acque trattenute nella natura carsica delle rocce del massiccio del Grappa, li libera in oscuri quanto misteriosi sifoni e ha un percorso di poche centinaia di metri

Il tempo di pronunciarlo: “Olier”.. e la .. “o” finale è già nel Brenta in cui affluisce.

Risalire alle sorgenti di un fiume ha un che di magico e affascinante, piccolo o grande che esso sia, nascosto o manifesto che ne sia il luogo d’origine.

Bene si intuisce la motivazione del perché nell’antichità tali luoghi erano considerati sacri.

Come potrebbe essere altrimenti, se si considera l’acqua dono che cielo e terra elargiscono

I fiumi erano così connessi al sacro da essere divinizzati o comunque colpivanoo così tanto l’immaginazione di poeti e scrittori da portarsi a seguito la nomea legata al loro nome

Come il Clitunno, che ha avuto la fortuna d’essere visitato alle sue sorgenti da ben tre poeti, Virgilio, Byron e Carducci e , come si sa, basta poco perché dall’anonimia si balzi alla storia, con simili padrini poi!

Che dire dello scolastico Pian del Re, alle pendici del Monviso dove nasce l’ammiraglio dell’orografia italiana, il Po.

Un fiume così importante per bacino e lunghezza, che i primi padani, commentandolo, hanno probabilmente esclamato: “però che po’ po’, di fiume” e da allora si porta il nome di quella esclamazione.

Tutti andrebbero citati i fiumi, perché tutti hanno una storia che li ha fatti e li fa importanti nel tempo e negli avvenimenti delle terre da cui sono nati , che hanno attraversato e attraversano tutt'ora

Tevere, Arno, Piave, Rubicone, Trebbia, Nure .

Ognuno ci aggiunga quelli che conosce e che gli altri non conoscono e ne avremmo un elenco interminabile.

Ci sono fiumi però che possono ignorare sia le sorgenti che la foce perché tanta è la fama che si sono meritati durante il loro percorso che, in quanto a gloria. possono stare più che appagati.

Alludo ai grandi fiumi che hanno legato a sé lo sviluppo di millenarie civiltà e che continuano tutt’oggi a farlo.

Fiumi che nascono già adulti, saltando a piè pari, verrebbe da dire a piè bagnati, tutta quella faticosa gestazione che tocca agli altri.

Uno di questi è il Gange e la storia che vi voglio raccontare è di come entrai nella sala del suo parto pagando un debito contributo.

Con Massimo, mio compagno di viaggio per quella nostra seconda visita all’India, pianificammo a puntino il tragitto: meta, le mitiche sorgenti del Gange, dove per la fede Induista, Shiva fa cadere il fiume sulla sua lunga capigliatura per mitigarne l’ irruenza, prima di abbandonarlo al suo fluire attraverso la pianura indiana fino alla sua foce.

Arrivo a Delhi e in treno fino Rishikesh, nell’Uttarakand, dove facemmo la prima conoscenza con il nostro amico fiume.

A Rishikesh il Gange viene considerato ancora fiume di montagna ed è caratterizzato da un percorso tumultuoso che alterna rapide a ampie anse, dove sembra voglia riposare un po’ prima di riprendere la corsa.

Guardiamoli questi due “vagabondi del Dharma”, come si sono definiti , rubando la definizione al famoso romanzo di Kerouac. Non ce ne voglia Jack per il paragone all’apparenza irriverente, ma vagabondare per un paese come l’India, sembra d’essere su un enorme strada che offre un’uniformità di cultura intrisa di religione ma, nel contempo, una varietà di paesaggi che va dai tropici ai ghiacciai dell’Hymalaya.

Che altro non è un fiume se un immensa strada d’acqua che da sola traccia il suo itinerario? Dunque, lungo le rive di questo fiume, trascorrono le loro giornate, passeggiando, meditando, confrontando le loro sensazioni ed impressioni.

Passano intere ore dalla terrazza dell’ashram dove sono albergati, ad osservare in silenzio il sui flutti, come stregati dalla sua maestosità e dal suo impeto.

Percezione intima che, nel gioco di riflessi tra macro e microcosmo, ciò che vedono scorrere sotto i loro occhi e che da vita a questa terra è lo stesso che scorre nel loro corpo.

I fiumi sono per la terra come le arterie per il corpo.

L’acqua è la stessa: il settantapercento del nostro peso, trequarti della superficie del nostro pianeta che a ben dire, per una semplice ragione di equità, si dovrebbe chiamare acqua e non terra.

Ancor più sul piano della speculazione metafisica, e su questo i nostri due vanno alla grande, un po’ per le letture sulla filosofia induista e buddista che stanno facendo, un po’ perché gli va di confrontarsi su quello che da tali letture entrambi sembra abbiano appreso.

E il fiume sempre li, a sciacquare le speculazioni che riempiono il discorrere.

Tempi e luoghi che sembrano appagare solo la ragione per poi cadere sulle rive perché senza mani che riescano ad aggrapparsi al cuore e trattenersi in esso

"Perché tanto parlare? si dicono, dopo un po’ che avvertono la sintassi seccare la gola.

Le parole coprono la voce delle onde.

Perché cercare, quando basta sedersi e lasciarsi rapire dal loro moto e permettere che si sostanzi in ascolto profondo la semplice costatazione che un fiume è metafora della vita?

Scorre di continuo.

Dalle scalinate dei templi che arrivavano fino alle sue rive, folle di pellegrini si bagnano ogni giorno nelle sue acque limacciose in ottemperanza alla loro fede .

Pure loro due, con non poca fatica, in un ansa che spiaggia le sue acque con meno velocità, si immergono in un bagno che volevamo fosse rituale e poter poi raccontare: anche noi.

È difficile raccontare cosa si prova.

Un misto tra doveroso rispetto al misticismo religioso indiano

Eccitazione e rapimento per essere di fronte ad un mito di cui tanto si era sentito parlare e che ora sta li a manifestarci la sua ragione di essere tale.

La sua presenza è continua.

Rumoreggia di notte misterioso

Si riempie delle voci e dei colori della vita dalle prime luci del giorno fino al suono delle cornucopie che chiamano i devoti alla preghiera serale sulle sue rive.

Ma non è ancora quello che cercano, quindi da Rishikesh si trasferiscono ad Uttarkashi, più a nord e, dopo una breve sosta per una necessaria climatizzazione all’altitudine, fino a Gangotri, sulle pendici dell’Himalaya.

È un lungo e faticoso viaggio quello che fanno, schiacciati con altri viaggiatori dentro l’abitacolo di un fuoristrada che compensa la sua scomodità con la volontà del suo motore e del conducente di non arrestarsi di fronte a nessun ostacolo.

Otto ore di percorso in impervie valli, maestosi e selvaggi paesaggi, centri abitati che ripetono l’ormai conosciuto folklore dell’India, e giù, nelle valli, il fiume che scorre in direzione opposta alla loro.

Lo osservo come ipnotizzato e lui osserva me.

Potrà sembrare presunzione sentirsi osservati da un fiume, ma in fondo perché non potrebbe essere?.

Perché non considerare che gli elementi abbiano un anima personale in grado di dialogare con noi, con un linguaggio che non sia quello della razionalità supponente di chi li vuole solo dominare?

Siamo nel paese dove a questo fiume si attribuisce personalità divina ed il suo nome entra nelle suppliche e nei ringraziamenti delle preghiere come “la Dea Ganga” ed ad una Dea tutto è possibile.

Più ci avviciniamo alla destinazione, più questa sensazione si concretizza in me con una forma di malessere che sul momento non mi riesce di riconoscere.

Arrivati a Gangotri, come metto piede a terra, il sintomo diviene chiaro con un dolore tipico che riconosco subito: ho in corso una colica renale.
È come se il fiume fosse entrato in me e premesse con forza sulle mie reni.

Dolore sordo, intenso, continuo accompagnato da nausea e vomito.

Avere una colica renale in India, credetemi è assai preoccupante, per di più in un posto assai lontano da un centro medico attrezzato come è Gangotri.

Che fare?

Non impreco alla malasorte. Sento che quello che è in corso in me è un dialogo doloroso tra me e quel fiume.

Sono io l’intruso che è venuto a disturbarlo per appagare la sua curiosità di mito.

Raccolto nella posizione più antalgica che mi è possibile cerco un approccio con esso.

Ormai sono qui. Oltre a questo dolore che altro può farmi?

Se questo è il prezzo, va bene, lo pago.

Ma se è vero che il senso della sua esistenza e scorrere, come vi è entrato, appagato, prima o poi ne uscirà.

Inizia così un silenzioso dialogo , articolato di sogni e speranze.

Ecco , adesso trattengo il fiato e quando lo lascerò andare il dolore sarà passato”.

Puerile speranza, ma ci provo più e più volte.

Adesso mi lasciò andare al sonno e durante una breve tregua che mi concede il dolore, sognerò una cascata in cui si scioglie il dolore e mi sveglierò senza più nulla”

La cascata, anzi le cascate ci sono , ma non sono quelle del mio sogno. Sono le sue, dove scarica la sua furia e l’abbondante acqua visto che, nel frattempo, si è messo anche a piovere.

Acqua su acqua ed il dolore è sempre li, insistente e totalizzante.

Massimo mi guarda preoccupato e riesce a procurarmi da una farmacia locale qualche antalgico con nullo o scarso effetto.

Io in balia a dolori e domande senza costrutto su di un fiume che si agita dentro e che già ormai sa tutto di me.

Poi, d’improvviso, una minzione più intensa rimuove il calcolo che ostruisce le vie urinarie e con esso se ne va il dolore e cessa la colica, lasciandomi prostrato per questo lungo, estenuante dialogo con questo scomodo ospite.

Sento che mi ha concesso il suo permesso per continuare a cercarlo.

Cessa anche di piovere .

Che non mi si venga a dire che pioggia e fiume non erano in combine nei miei confronti!

Il cielo è pulito e il sole rischiara il paesaggio monumentale delle vette Himalayane.

Un giorno di riposo, dieta e la ricerca della sicurezza che tutto quello che il fiume voleva dirmi me lo aveva detto senza lasciare alcun fraintendimento.

La colica mi era appena passata e non ne volevo certo un’altra per qualche ma o però lasciati in sospeso.

Riprendiamo il viaggio verso la destinazione con l’aiuto di un portatore che si sovraccarica del mio zaino

Dopo sei ore di marcia, su un sentiero alquanto trafficato di pellegrini indigeni e non, giungiamo a Bhujbasa, tremilaottocentometri, dove sostiamo la notte in un ashram .

Manca poco ormai.

Il massiccio del ghiacciaio si intravede, ma seppur eccitati alla vista della meta , rimandiamo al giorno successivo il suo raggiungimento.

È una giornata radiosa, asciutta, tersa, quasi a compensare la tanta pioggia caduta i giorni addietro.

Ora il sentiero scollina fino alle riva del fiume costeggiandolo.

Eccolo. Ora camminiamo fianco a fianco, in direzioni opposte.

Non abbiamo bisogno di dirci altro ed il gorgogliare tumultuoso e freddo dei tuoi flutti si mischia al suono dell’ansimare del mio respiro affaticato ed eccitato.

Poi appare l’utero aperto che lo partorisce: Gaumukh la " bocca della vacca " come gli Indiani chiamano questo luogo.

Un ghiacciaio che improvvisamente ha arrestato la sua corsa e ti dice:

Fin qui sono arrivato, gestando nelle mie viscere questo figlio. Ora mi siedo e lo partorisco al mondo. Guardatelo”

E da una grotta ghiacciata esso esce.

Non spaurito e indifeso neonato dal flebile vagito, ma gagliardo ed adulto, dal canto definito e cristallino; già irruente, pieno di personalità; già fiume conscio del destino epico e divino che lo attende .

La visione è stupefacente, di quelle che ti lasciano la parola sospesa nella bocca spalancata.

Il ginocchio si piega e se conosci una lode senti che questo è il momento di cantarla, come fanno tutti pellegrini qui davanti.

Se non la conosci resti muto e rispettoso di fronte alla potenza di simile atto creativo.

Ti senti piccolo, insignificante ma fortunato di potervi assistere.

Forse questo voleva farmi capire il fiume con il suo doloroso dialogo viscerale.

Che siamo piccoli e fragili di fronte alla potenza con cui si esprime il creato e che a certe intimità della natura, come la nascita di un fiume, vi si deve assistere se si vuole, con religioso rispetto.

Torno spesso a Treviso, ridente città della marca a cui da il nome.

Mi piace passeggiare per i borghi a ridosso delle mura medioevali, dove il Sile, si insinua nell’architettura e si conforma ed essa, con la sua acqua che scivola nei sottoponti, nelle rostre dei mulini

Costeggia placido le rive erbose del fossato che circonda la città, con i salici che appoggiano indolenti i loro rami nella lenta corrente.

L’ha cosi caratterizzata che Treviso viene ora definità :”Città d’acqua”.

Il Sile non è il Gange, ci mancherebbe.

Eppure, conoscere il posto dove nasce e tornare ogni tanto ai fontanassi ad osservare quelle misteriose polle sbuffanti, mi procura una certa commozione e, credetemi , ogni volta, senza rendermene conto mando una preoccupante attenzione alle mie logge renali, perché il Sile, anche se piccolo, è sempre un fiume e non si può mai sapere cosa voglia dirti e come. Gange docet.

II racconto delle sabbie

Nato da remote montagne, un fiume solcò molte regioni per raggiungere finalmente le sabbie del deserto. Provò a superare questo ostacolo così come aveva fatto con gli altri, ma si accorse che, man mano che scorreva nella sabbia, le sue acque sparivano.
Era convinto, tuttavia, che era suo destino attraversare quel deserto, eppure non ci riusciva ... Fu allora che una voce nascosta, proveniente dal deserto stesso, mormorò: "II vento attraversa il deserto; il fiume può fare altrettanto".
Il fiume obiettò che, sebbene si lanciasse contro la sabbia, l'unico risultato era di essere assorbito, mentre il vento poteva volare e, quindi, attraversare il deserto.
"Lanciandoti nel tuo solito modo, il deserto non ti permetterà di attraversarlo. Potrai solo sparire o diventare una palude. Devi permettere al vento di trasportarti fino a destinazione". "Ma com'è possibile?".
"Lasciandoti assorbire dal vento".
Era un'idea inaccettabile per il fiume. In fin dei conti, non era mai stato assorbito prima d'ora. Non voleva perdere la sua individualità: una volta persa, come essere sicuri di poterla ritrovare?
La sabbia rispose: "II vento svolge questa funzione: assorbe l'acqua, la trasporta al di sopra del deserto, poi la lascia ricadere. Cadendo sotto forma di pioggia, l'acqua ridiventa fiume".
"Come posso sapere che è la verità?".
"È così. Se non ci credi, potrai solo diventare una palude, e anche per questo ci vorranno anni e anni; e, comunque, non sarai più un fiume".
"Ma non posso rimanere lo stesso fiume?".


"In entrambi i casi non puoi rimanere lo stesso fiume", rispose il mormorio, "la parte essenziale di tè viene portata via e forma di nuovo un fiume. Oggi porti questo nome perché non sai quale parte di tè è quella essenziale".
Queste parole risvegliarono certi echi nella memoria del fiume. Si ricordò vagamente di uno stato in cui egli - o forse una parte di sé? - era stato tra le braccia del vento. Si ricordò anche - ma era veramente un ricordo? - che questa era la cosa giusta, e non necessariamente la cosa più ovvia, da fare. Allora il fiume innalzò i suoi vapori verso le braccia accoglienti del vento. Questi, dolcemente e senza sforzo, li sollevò e li portò lontano, lasciandoli ricadere delicatamente non appena raggiunsero la cima di una montagna molto, molto lontana. Ed è proprio perché aveva dubitato, che il fiume poté ricordare e imprimere con più forza nella sua mente i dettagli della sua esperienza. "Sì, ora conosco la mia vera identità", si disse. Il fiume stava imparando. Ma le sabbie mormoravano: "Noi sappiamo, perché lo vediamo accadere giorno dopo giorno e perché noi, le sabbie, ci estendiamo dal fiume alla montagna".
Ecco perché si dice che la via che permette al fiume della vita di proseguire il suo viaggio è scritta nelle sabbie.


Questa bellissima storia si ritrova in molte lingue nella tradizione orale. Circola quasi sempre fra i dervisci e i loro allievi. È stata usata nella Rosa mistica del giardino del rè, di Sir fairfax Cartwright (pubblicato in Inghilterra nel 1899). Questa versione proviene da Awad Afifi il tunisino, morto nel 1870.

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Essere clown

Essere clown e' la capacita' di ridere di se', di far ridere la gente,
di non avere pregiudizi, di mettersi in gioco.
Essere clown e' la capacita' di amarsi, di amare, di emozionarsi per il
volo di una libellula.....per una carezza donata.
Essere clown e' la capacita' di non lasciarsi sopraffare "seriamente"
dagli eventi e di ritrovare "sempre" la primavera nel deserto della
vita, di viaggiare nel mare infinito incontro all'orizzonte dell'amore,
senza lasciarsi prendere dal degrado dell'abitudine.
Essere clown e' scoprire la curiosita' del bambino che vive dentro di
te, quel bambino che non giudica, che, immerso nel cuore, resta
estasiato dall'enigma della vita.


Essere clown e' essere il furbo-idiota che si lascia prendere
dall'ironia, che gioca con la propria autoironia, perche' immerso nella saggezza
del vecchio-bambino che lotta contro il destino, danzando, in un gioco
scherzoso che ammalia la vita.
Essere clown e' essere se stessi...."il non attore" pur pensando in
forma coreografica, il "giullare" che danza con il cuore, con i suoi
pensieri, l'uomo straordinario che ti fa viaggiare nel mondo della fantasia
e riflettere sulle cose che non realizziamo, perche'........dormiamo.
Essere clown e' quello "stato d'animo" in cui esploriamo
"coscientemente" le nostre debolezze, i nostri limiti, le nostre contraddizioni, per
trasformarle....in risate.
Essere clown e' quella capacita' di guardare tutte le cose con gli
occhi incantati di un bambino e ridere della propria ignoranza e
semplicita'.
Essere clown e' non avere stereotipi da imitare, da seguire senza
opporsi...perche' e' "il caos" che racchiude in se' tutti i colori
dell'arcobaleno.
Essere clown e' essere "il diverso"..... "l'eccentrico" che si prende
la liberta' di dire e fare cio' che vuole, perche' non e' schiavo delle
idee e degli uomini.
Essere clown e' essere "il jolly", "l'arcano", "il numero zero", l'uomo
che attraverso i suoi continui cambiamenti (che e' il suo modo di
essere) accetta l'ironia della vita consapevole delle sue incongruenze.
Essere clown e' "la saggezza" che superando tutti i sentimenti negativi
come l'invidia, la rabbia e le frustrazioni, che si oppongono al nostro
divenire, dona serenita' e "diversita'", quella capacita' di
comprendere, quella forza che, anche nella tristezza, rallegra il cuore e non ti
fa perdere la voglia di ballare e di combinare pasticci.
Essere clown e' essere la forza straordinaria che si immerge nella
tempesta e che, pur non potendo impedirla, ti dona il faro della speranza ,
seminando "il giusto senso della consapevolezza alla vita", indicandoti
la rotta per salvarti da un sicuro naufragio.
Essere clown e' "non temere di abbassarsi", di fare, di sbagliare,
perche' dentro di noi c'e' la capacita' di rialzarsi, di liberarsi dalla
schiavitu' delle abitudini, dei modi di essere, per continuare e
riprendere la strada.......anche quando si e' intrappolati nei fanghi della
palude.
Essere clown e' la capacita':
- di restare in silenzio ad ascoltare
- di non sforzarsi a spiegare perdendosi in un tessuto di equivoci
- di pensare che ogni giorno possa diventare migliore di ieri
- di avere fiducia nella vita che vivi
- di non lasciarsi prendere dall'indifferenza e vincere dal pessimismo
che "cova" dentro di te.
Essere clown e' la capacita' di liberarsi dalla gabbia della vita
"trasformandoti", da comparsa che ripete quel monologo a memoria.....la sua
parte, in protagonista del tuo divenire.
Essere clown e' "dunque"............. "semplicemente":
la capacita' di scoprire e ritrovare la vita.........se stessi

Zeferino Di Gioia (clown dottore Zero' della Compagnia dell'arpa a dieci corde -
Associazione onlus GAU - Gruppo di Azione Umanitaria)
24 marzo 2006

Con piacere pubblichiamo questa  storia , inviataci da una amica.

Un giorno, il giovane re Artù fu catturato ed imprigionato dal sovrano di un regno vicino. Mosso a compassione dalla gioia di vivere del giovane, piuttosto che ucciderlo, gli offrì la libertà, a patto, però, che rispondesse ad un quesito molto difficile: "Cosa vogliono veramente le donne?". Artù avrebbe avuto a disposizione un anno, trascorso il quale, nel caso in cui non avesse trovato una risposta, sarebbe stato ucciso.

        Un quesito simile avrebbe sicuramente lasciato perplesso anche il più saggio fra gli uomini ed al giovane Artù sembrò una sfida impossibile; tuttavia, avendo come unica alternativa la morte, Artù accettò la proposta, e fece ritorno al suo regno. Ivi giunto, iniziò a interrogare chiunque: la principessa, le prostitute, i sacerdoti, i saggi, le damigelle di corte e via dicendo, ma nessuno seppe dargli una risposta soddisfacente. Ciò che la maggior parte della gente gli suggeriva era di consultare una vecchia strega, poiché solo lei avrebbe potuto fornire la risposta, ma a caro prezzo, dato che la strega era famosa in tutto il regno, per gli esorbitanti compensi che chiedeva per i suoi consulti.
        Il tempo passò... e giunse l'ultimo giorno dell'anno prestabilito, così che Artù non ebbe altra scelta che andare a parlare con la vecchia strega, che accettò di rispondere alla domanda, solo al patto di ottenere la mano di Gawain, il più nobile dei Cavalieri della Tavola Rotonda, nonché migliore amico di Artù! Il giovane Artù provò orrore a quella prospettiva... la strega aveva una gobba ad uncino, era orrenda, aveva un solo dente, puzzava di acqua di fogna e spesso faceva anche dei rumori osceni! Non aveva mai incontrato una creatura tanto ripugnante. Perciò si rifiutò di accettare di pagare quel prezzo e condannare,così, l'amico a sobbarcarsi un simile fardello!
        Gawain,venuto al corrente della proposta, volle parlare ad Artù dicendogli che nessun sacrificio era troppo grande per salvare la vita del suo re e la tavola rotonda, e che quindi avrebbe accettato, di buon grado, di sposare la strega.
        Il loro matrimonio fu pertanto proclamato, e la strega finalmente rispose alla domanda: "Ciò che una donna vuole veramente è "essere padrona della propria vita"
        Tutti concordarono sul fatto che dalla bocca della strega era uscita senz'altro una grande verità e che sicuramente la vita di Artù sarebbe stata risparmiata.
        Infatti il sovrano del regno vicino risparmiò la vita ad Artù, e gli garantì piena libertà.
        Ma che matrimonio avrebbero avuto Gawain e la strega? Artù si sentiva lacerato fra sollievo ed angoscia, mentre Gawain si comportava come sempre, gentile e cortese. La strega al contrario esibì le sue peggiori maniere... mangiava con le mani, ruttava e scoreggiava, mettendo tutti a disagio.
        La prima notte di nozze era vicina, e Gawain si preparava a trascorrere una nottata orribile, ma alla fine prese il coraggio a due mani, ed entrò nella camera da letto, ma... che razza di vista lo attendeva!
        Dinnanzi a lui, discinta, sul talamo nuziale, giaceva semplicemente la più bella donna che avesse mai visto! Gawain rimase allibito, e non appena ritrovò l'uso della parola (il che accadde dopo diversi minuti), chiese alla strega cosa le fosse accaduto. La strega rispose che era stato talmente galante con lei quando si trovava nella sua forma repellente, che aveva deciso di mostrarsi a lui nel suo altro aspetto, e che per la metà del tempo sarebbe rimasta così, mentre per l'altra metà, sarebbe tornata la vecchiaccia orribile di prima.
        A questo punto la strega chiese a Gawain quale dei due aspetti avrebbe voluto che ella assumesse di giorno... e quale di notte.
        Che scelta crudele!
        Gawain iniziò a pensare all'alternativa che gli si prospettava: una donna meravigliosa al suo fianco durante il giorno, quando era con i suoi amici, ed una stregaccia orripilante la notte? O forse la compagnia della stregaccia di giorno e una fanciulla incantevole di notte, con cui dividere i momenti di intimità? Tu cosa avresti fatto?
        La scelta di Gawain è scritta qui di seguito... ma non leggere, finché non avrai  fatto la tua scelta!

Il nobile Gawain disse alla strega che avrebbe lasciato a lei la possibilità di decidere per se stessa.

        Sentendo ciò, la strega gli sorrise, e gli annunciò che sarebbe rimasta bellissima per tutto il tempo, proprio perché Gawain l'aveva rispettata, e l'aveva lasciata essere padrona di se stessa!
        La morale di questa storia? Non importa se la tua donna è bella o brutta, se è intelligente o stupida... in fondo in fondo è sempre una strega!!!
        Con questa mail ti è stata spedita la FortUna; non la Fortuna con la F maiuscola, ma addirittura la FortUna con la F e la U maiuscole. Qui non badiamo a spese. Da oggi avrai buona fortuna, ma solo ed esclusivamente se ti liberi di questa mail e la spedisci a tutte le streghe che conosci (presumo tantissime)...e agli uomini che sanno esser cavalieri.