Il modello globalizzato ha indiscutibilmente fatto emergere l’urgenza di una rivisitazione testuale della storia dello yoga, forse anche di una sua riscrittura, cosa che, del resto, sta già avvenendo con incredibile velocità per quanto attiene alle declinazioni del metodo attorno a tradizioni di pratiche ascetiche emerse tra l’XI e il XIV secolo d. C. e catalogate sotto il termine haṭayoga. Segnaliamo su questo l’enorme lavoro di ricerca portato avanti dal SOAS dell’Università di Londra, il cui progetto di recupero, traduzione, esegesi e pubblicazione di un cospicuo corpo di manoscritti totalmente inediti, fonti degli albori della tradizione dell’ haṭayoga, è stato premiato e finanziato nel 2015 dall’ European Research Council (http:/hyp.soas.ac.uk). Prima scaturigine di questo ambizioso progetto è la pubblicazione del volume Roots of Yoga,Translated and Edited with an Introduction by James Mallison and Mark Singleton, Great Britain, 2017.
Ambito di ricerca, quest’ultimo, che ha attirato l’attenzione degli etnografi contemporanei, ampliando l’orizzonte degli studi attraverso una vera e propria ricerca scientifica sul campo andando ad interrogare i “testimoni” viventi del metodo, uomini e donne che popolano i luoghi di pellegrinaggio e i grandi raduni religiosi dell’India contemporanea e che definiscono sé stessi ‘haṭhayogin’, cioè i praticanti del metodo (yoga) attraverso gli strumenti dello haṭha.
Di cosa parliamo quando parliamo di haṭayoga? Per quanto possa sembrare che il punto di continuità nella pratica yoga tra gli esercizi dei moderni e il panorama religioso sud-asiatico stia nell’utilizzo metodico di tecniche ‘fisiche’, ci pare interessante osservare come queste stesse tecniche – pur utilizzate probabilmente già da tempo (un periodo collocabile tra il V secolo a. C. e il l’XI secolo d.C, secondo la cronologia suggerita da Jason Birch) all’interno di tradizioni ascetiche delle quali non si ha testimonianza testuale diretta, ma attraverso la letteratura epica e brahmanica che ne attesta l’esistenza e ne descrive la condotta -, non siano state codificate nei testi fino all’inizio del secondo millennio, quando comincia ad evidenziarsi un corpus letterario di testi su l’haṭha (termine col quale viene designato un metodo o ‘yoga’ centrato su pratiche fisiche), nei quali si sviluppano e definiscono le tecniche dell’haṭayoga, la cui origine, probabilmente, è da ritrovarsi nei lignaggi (sampradāya) dei Kānphata e dei Nāth, e che vengono associate alle figure semi-leggendarie di Matsyendranātha e di Gorakhnātha. Allo stato attuale della ricerca, i dati di cui cominciamo a disporre ci permettono di collocare la formalizzazione dell’haṭhayoga tra l’XI e il XIV secolo d.C., attingendo ai testi di questo periodo formativo redatti perlopiù in sanscrito. Come già detto sopra, questi testi sono rimasti sconosciuti e non tradotti per lungo tempo (per una dettagliata disanima della cronologia delle traduzioni si rimanda a J.Mallison, Haṭhayoga, entry in Vol. 3 of the Brill Encyclopedia of Hinduism) e le fonti che sono state in passato più accreditate - e che hanno rappresentato per molto tempo una sorta di canone dell’insegnamento dell’haṭayoga - sono costituite da un esiguo gruppo di testi più tardi, tradotti ormai circa un secolo fa (tra il XIX e il XX secolo) e pubblicati senza un adeguato apparato critico:
- Haṭhapradīpikā (1450 ca.), attribuita a tale Svātmārāma e costituita perlopiù come una sorta di ‘compilazione’ di versi afferenti a testi precedenti. Testo, tuttavia, che per primo afferma programmaticamente ed esplicitamente l’insegnamento dell’haṭhayoga distinguendolo da altri ‘yoga’, nonché il primo ad includere la pratica degli āsana (se ne descrivono un numero di 15, delle quali 8 sono varianti della posizione seduta, e 7 sono posture non sedute) come parte integrante di questa metodica, assieme alle mudrā presenti nei testi precedenti, alle tecniche di ritenzione del respiro (kumbhaka) e alla concentrazione sul suono interno (nādānusandhāna). Quattro tipi di tecniche che si ritroveranno nelle opere successive sul metodo haṭha e che, accompagnate dalle pratiche di ‘pulizia’, diventeranno il modello ‘classico’ di questa disciplina.
- Śivasaṃhitā (XV sec.).
- Gheraṇḍasaṃhitā (XVIII sec.), testo redatto nella forma di un ‘manuale’ di yoga insegnato da Gheraṇḍa al discepolo Chanda. Come fa notare James Mallison nella sua traduzione (Mallison 2004), questo testo presenta dua interessanti peculiarità: in primo luogo, il metodo descritto viene definito “ghaṭa” o “ghaṭasthayoga”, e non “ haṭhayoga”, indicando con tale termine (trad.let. “vaso”) il corpo o, meglio, la “persona” sulla quale il metodo lavora; in secondo luogo, il testo sembra unico nel proporre una metodologia a “sette membra”, a cui corrisponde l’ordine dei sette capitoli del manuale. Il secondo capitolo, interamente dedicato agli āsana, è caratterizzato da un incipit che ascrive a Śiva l’insegnamento degli āsana in numero di 8.400.000 (“quante sono in numero le specie viventi in questo universo”, II. 1) – figura numerica che è divenuta parte integrante delle successive narrazioni su yoga -, per poi ridurre a 32 quelle effettivamente descritte ed insegnate.
Tra gli esercizi degli umani che chiamiamo “antropotecniche” (Sloterdijk 2010) sviluppatisi nel Sud-Asia e sussunti sotto il termine “yoga”, l’ haṭhayoga rappresenta una metodica specifica emersa e ulteriormente modificatasi lungo un periodo formativo che va orientativamente dall’XI al XIV secolo d.C. . Per quanto ancora in una fase iniziale, la ricerca scientifica su haṭhayoga ci sembra un settore di studio di estrema complessità e pure di imprescindibile urgenza oggi, data la sua importanza per comprendere il fenomeno transnazionale e globalizzato dello dello yoga moderno. Addentrandoci si questo percorso, abbiamo trovato fonte d’ispirazione e di informazioni nel lavoro pionieristico dei ricercatori che portano avanti l’HYP, un progetto di ricerca accademico che ruota attorno allo studio testuale dell’ haṭhayoga e alla ricerca etnografica sui suoi praticanti asceti della contemporaneità, allo scopo di ricostruirne una storia delle pratiche. Al cuore del progetto sta la traduzione e l’edizione di critica di un corpus di dieci manuali sull’ haṭhayoga, parte dei quali risalenti al periodo formativo di questa metodica ed altri redatti in un periodo posteriore che si prolunga fino al XIX secolo. Una ricerca complessa, dunque, ma anche urgente, in virtù del fatto che entrambe le fonti, testuali ed umane, sono in forte pericolo di estinzione:
- la maggior parte dei manoscritti dei testi in oggetti sono su carta (o foglie di palma) e rinvenuti in territorio sudasiatico, dove le condizioni climatiche e la forte presenza di insetti rendono la loro conservazione piuttosto critica; inoltre parte dei testi determinanti per la comprensione della storia dell’ haṭhayoga sono caduti nell’oblio, offuscati dalle molteplici trascrizioni e ad oggi rinvenibili solo in manoscritti irrimediabilmente danneggiati.
- Anche il panorama antropologico indiano dei testimoni viventi di questa tradizione dello yoga si sta velocemente modificando, sotto la spinta della globalizzazione, in virtù della rapidissima diffusione delle tecnologie informatiche e della spinta omologante del fenomeno dello yoga moderno (Bevilacqua 2016).
L’ origine delle tecniche dell’haṭhayoga, così come dei termini e degli elementi che ne connotano l’orizzonte esegetico, va ricercata nelle tradizioni ascetiche degli śramaṇa, i praticanti le “austerità” (tapas), movimenti religiosi sviluppatisi parallelamente e indipendentemente alla tradizione brahmanica, e nei tantra, insieme di testi e di tradizioni mistico-religiose dalla non univoca collocazione tra i movimenti religiosi del sud-Asia. Per quanto le estreme pratiche ascetiche coltivate dagli eremiti nei primi secoli avanti Cristo siano raramente menzionate nell’assai più tarda letteratura dell’ haṭhayoga, le tecniche fisiche che caratterizzano questa declinazione dello yoga derivano probabilmente proprio da quelli ambienti, dove il corpo e i suoi annessi venivano messi fortemente in gioco. Le forme più estreme dell’ascesi – come sedere tra i fuochi, restare in piedi o mantenere un arto sollevato per lunghissimi periodi di tempo, ed altro ancora – non risultano essere state incorporate nei testi in argomento; appaiono, invece, le forme più ‘leggere’ della vita ascetica, come il digiuno, il celibato e la pratica di metodiche del respiro che vanno complessivamente sotto il nome di prānāyāma. Dal milieu tantrico confluisce, allo stesso tempo, nei testi dell’ haṭhayoga l’uso di un certo lessico, la cornice metafisica di riferimento e l’adozione di determinate tecniche meditative volte alla liberazione ma anche a scopi più ‘mondani’, così come all’ottenimento di ‘poteri’ supernaturali.
Punto di partenza della ricerca potrebbe consistere, allora, nel porsi almeno due domande preliminari:
- come interpretare il termine stesso “ haṭhayoga” (let. “yoga della forza”)?
- Quando si è cominciato ad utilizzarlo? Quando diventa esplicitamente e programmaticamente termine tecnico di una specifica corrente dello yoga?
Se il termine sanscrito “haṭha”, infatti, significa letteralmente “forza”, esso, allo stesso tempo, denota un impianto d’esercizio di tecniche fisiche supplementari ad un concetto di yoga più ampio. Nel costrutto “ haṭhayoga”, cioè, il senso diventa quello di uno yoga (metodo e fine, allo stesso tempo)) caratterizzato da (come metodo) e raggiunto (come fine) in virtù della pratica delle tecniche d’esercizio dell’ haṭha. In che senso questo uso del temine? Per quanto una certa tradizione esegetica occidentale emersa tra il XIX e il XX secolo abbia considerato queste pratiche come improntante all’utilizzo della forza nel senso di una vera e propria “violenza su di sé” di ascetica radicalità (Birch 2011), come già detto sopra, questa enfasi sulle pratiche estreme non pare trovare spazio nei testi del periodo formativo. Omissione, questa, assai significativa, in testi che si presentano come veri e propri ‘manuali’ per la pratica di cui forniscono precisi dettagli. La domanda, dunque, pare aprire altri scenari interpretativi. Come fa notare Birch, “se il nome haṭhayoga fosse fondato sulla nozione di sforzo forzato, ci si dovrebbe aspettare di trovare indicazioni assertorie sull’esecuzione forata (forme modali come haṭhāt o haṭhena) delle tecniche. Invece, viene utilizzata un termine più neutro per rendere lo sforzo (yatnena o prayatnena); in molte frasi interpretabile come ‘con cura’ o anche ‘con diligenza’, altre volte come ‘vigorosamente’ o ‘energeticamente’”(Birch 2011, p.531). Di fatto, i testi sembrano sempre porre in primo piano l’esigenza per cui più potente è l’effetto della pratica, più grande è la cura con la quale lo yogin deve eseguirla. Sempre seguendo le indicazioni di Birch, forse dovremmo mettere momentaneamente in stand by l’interpretazione letterale del termine haṭha ‘sforzo forzoso’, per perlustrare la possibilità che tale termine stia ad indicare altro o che possa avere, all’interno dello specifico contesto del metodo che definisce, un peculiare significato tecnico non connesso al suo significato radicale. Da un lato, tenendo presente la vicinanza delle tecniche dell’ haṭhayoga con l’ambiente ascetico dei secoli precedenti il periodo formativo, potremmo pensare alla dimensione ‘eccezionale’ di queste pratiche, inserite all’interno di un’idea di esercizio metodico e reiterato mirante a ‘forzare’ irreversibilmente l’accadere di certi effetti soteriologici e non. D’altro canto, durante il periodo formativo dell’ haṭhayoga si assiste, nelle sue attestazioni testuali più tarde, alla penetrazione di terminologie e tecniche di visualizzazione della dea serpente Kuṇḍalinī, risalente all’interno del corpo come energia attraverso un sistema di punti focali di snodo denominati cakra, derivanti dal paradigma dei Tantra (dal sistema kaula,in particolare) che viene a sovrapporsi alla cornice precedente. Un’importante modificazione, questa, che aprirà alla dimensione simbolica della pratica e che giocherà un ruolo strategico nelle tecniche di visualizzazione (Mallison 2011). Non a caso, molta della moderna letteratura sull’ haṭhayoga favorisce la definizione ‘esoterica’ del termine “haṭha”. Questo approccio si rivela all’Occidente nel corso del XIX secolo, grazie alla traduzione in inglese della Gheraṇḍasaṃhitā ad opera di Srisa Chandra Vasu (1895), il quale offre, nella sua introduzione al testo, precisamente la spiegazione di come “ Haṭhayoga significhi lo Yoga o l’unione di ha e ṭha, essendo il significato di questi il sole e la luna” (1895: xxii). Birch suggerisce che ci sia un’evidenza circostanziale in favore di questa ipotesi esegetica, stante il fatto che la nozione di yoga come “unione” pare emergere nel periodo medievale ad opera delle tradizioni dell’ haṭhayoga e, tra i testi seminali del primo periodo, nell’Amṛtasiddhi (XII sec.) yoga (il testo non menziona, tuttavia, il termine haṭhayoga) viene esplicitamente definito come l’unione del sole e della luna (si veda su questo testo e il probabile milieu buddhista della sua redazione, J. Mallison, The Amṛtasiddhi: Haṭhayoga’s tantric Buddhist source text, 2016). Un testo, questo, che, insieme allo Dattātreyayogaśastra (XIII sec.), rappresenta la fonte testuale più antica pervenutaci nella quale si insegnano pratiche che andranno a confluire nella più tarda sistematizzazione dell’haṭhayoga. E’ solo a partire dal XIV secolo, tuttavia, che rinveniamo i primi testi che sovrappongono e combinano lo yoga della kuṇḍalinī di matrice tantrica con le tecniche illustrate nei due precedenti lavori. A questo periodo, infatti, appartiene lo Yogabīja, primo tra i testi formativi dell’ haṭhayoga a fornire una cornice filosofico-metafisica di riferimento per la pratica di questa forma di yoga. Ed è ancora questo testo a fornire una definizione ‘esoterica’ del termine haṭha – assente nei testi del primo haṭhayoga - che tanta risonanza avrà nei testi posteriori, nei commentari e in buona parte della letteratura secondaria transnazionale arrivata fino ai moderni “studios” di yoga: ha-’il sole’, ṭha-’la luna’; haṭha-’unione del sole e della luna’.
Lo Yogabīja è stato da più parti attribuito a Gorakṣanātha, ma non ci sono evidenze nei manoscritti pervenutici che possano supportare tale attribuzione (Mallison 2008). Piuttosto, come suggerisce Mallison, anche questo testo pare potersi considerare una sorta i compendio di formulazioni precedenti. Resta, tuttavia, importante nel tracciare una storia dell’evoluzione dell’ haṭhayoga per il suo darsi come fonte seminale per la definizione esoterica della diade “ha-ṭha”, che parrebbe così emergere diversi secoli dopo l’emergenza di questa tradizione dello yoga. Con questo innesto di forme tantriche di yoga sullo scheletro delle tecniche dell’ haṭhayoga si evidenzia l’emergere di una particolare rilevanza attribuita al ruolo del corpo nell’esercizio della disciplina, non solo in virtù di un maggior interesse dimostrato verso le posture fisiche (āsana) che pare non essere presente nelle fonti testuali precedenti, ma,soprattutto, per l’evidenziarsi di un’originale fisiologia ‘esoterica’ - connotata dalle nozioni di un “corpo sottile”, di un sistema di centri energetici (cakra) che ne strutturano l’impalcatura, attraversati e vitalizzati da un’energia ‘femminina’ -, padroneggiando la quale lo yogin acquisisce poteri (siddhi) superiori o extra-ordinari. La nozione di “corpo sottile” emerge anch’essa da un percorso storico complesso, attraverso un periodo di tempo e una eterogeneità di fonti buddhiste e hindu. La nozione stessa dei cakra e del sistema ad essi relato si dà come portato di questa evoluzione. Nei primi accenni alla fisiologia esoterica dei cakra, ad esempio, se ne danno in numero di quattro. Altre fonti, pur non utilizzando questo termine, parlano di cinque centri energetici. Il termine cakra stesso pare comparire per la prima volta nel Kaulajñānanirṇaya (IX-X sec.), attribuito a Matsyendranāṭha, dove se ne elencano sette, poi ampliati in una susseguente lista di undici. Un’evoluzione che è continuata fino a tempi assai più recenti. Non occorre, infatti, andare troppo indietro per rintracciare la fonte di quel sistema “a sei più uno” della mappa dei cakra che ci è sembrato identico a sé in una dimensione senza tempo. Nella traduzione di una testo assai tardo, lo Ṣaṭcakranirūpaṇa, che Arthur Avalon pone in appendice al suo lavoro The Serpent Power (1919), troviamo, infatti, quest’ultima mappatura del sistema dei cakra che molti tra gli studiosi e i praticanti yoga hanno a lungo ritenuto eterno e immutato, antico come lo yoga, e radicato in una sorta di esperienza universale e condivisa del corpo sottile. Più corretto ci sembra affermare che non ci sia un sistema standard di mappatura dei cakra: ogni scuola, addirittura ogni maestro all’interno di una scuola, ha proposto e sviluppato un suo sistema. La nozione stessa di cakra (let. ‘ruota’, movimento circolare di energia all’interno del corpo vivo) si è sviluppata nel tempo, a partire dai suoi primi loci in testi del buddhismo tantrico, come suggerisce Mallison, attorno all’VIII secolo d.C. . Molto probabilmente sono proprio queste tradizioni i precedenti conosciuti da Gorakṣanātha (il leggendario fondatore dell'ordine ascetico dei Kānphaṭa), il quale identifica questo stesso sistema dei centri energetici come ‘luoghi’ allineati lungo la colonna vertebrale all’interno del corpo sottile (anche la configurazione ‘verticale’ di questa mappatura, tuttavia, è variamente distribuita nel processo storico di redazione dei testi).
Nei testi manoscritti oggi a nostra disposizione che illustrano le tecniche dell’ haṭhayoga e il loro sviluppo storico è continuamente presente l’interazione in corso tra pratica e teoria, colorita della loro esegesi. L’ Haṭhapradīpikā, con la quale il processo formativo di questa tradizione dello yoga pare culminare e che sembra segnare il punto di passaggio tra i testi seminali e quelli posteriori, rappresenta il miglior esempio di tale interazione e di sintesi di una eterogenea eredità di pratiche, risultante attraverso un processo di assimilazione, traduzione e trasformazione di un patrimonio precedente che continua fino ai nostri giorni. Questo carattere plastico della disciplina, dunque, non è solo un fenomeno della nostra contemporaneità, ma pare essere stato sempre presente come tratto peculiare nella storia evolutiva e trasformativa dell’haṭhayoga. Nei testi classici, ad esempio, troviamo la confluenza delle tradizioni ascetiche più antiche con il portato di tradizioni religiose iniziatiche e scritture che vanno sotto il nome di Tantra, che, a partire dal VI secolo paiono ricoprire un ruolo affatto marginale nella compagine socio-antropologica del subcontinente indiano, data l’importanza che i guru di questa tradizione risultano possedere nelle biografie dei re e nella vita delle corti. Come già si è detto, queste correnti religiose contribuiscono alla formazione del linguaggio esoterico-metafisico che comincia ad apparire nei testi, forniscono la terminologia che caratterizza le tecniche della pratica e introducono tecniche specifiche di visualizzazione e meditazione. Peculiare al paradigma tantrico così introdotto nella compagine dell’haṭhayoga è la dimensione simbolica dell’utilizzo di “metafore” attraverso le quali vengono convogliate tutte le istanze d’esercizio attorno al risveglio e all’utilizzo dell’energia vitale rappresentata nella forma di kuṇḍalinī. Un aspetto peculiare dei testi che presentano questa simbologia sono le descrizioni di questa energia presente nel corpo vivo attraverso metafore “fluide” (si veda G. A. Hayes, “Metaphoric worlds and yoga in the vaiṣṇava sahajiyā tantric traditions of medieval Bengal, in Yoga.The Indian tradition, 2003), che diventeranno solo più tardi metafore energetiche, sonore o luminose. In questo linguaggio, tutto viene espresso attraverso “proiezioni metaforiche”, rappresentazioni del corpo sottile (dehatattva o devadeha, ‘corpo yogigo’) colto nel suo collocarsi contemporaneamente dentro e oltre il corpo fisico. Questo milieu metafisico incorpora le pratiche dell’ haṭhayoga con le suggestioni provenienti da un parallelo corpus letterario definito Tantra. Con questo termine ci si riferisce ad una particolare tradizione di testi interni ai movimenti religiosi di matrice hindu, così come alla variegata galassia delle tradizioni buddhiste. Testi che contengono vari insegnamenti di tipo iniziatico, tra cui quelli inerenti alle tecniche di risveglio di quell’energia psichica definita dal termine kuṇḍalinī. Il tantrismo veicola diverse scuole, tra le quali la cosiddetta tradizione kula mārga, all’interno della quale si trova più propriamente esplicitato un corpus di pratiche definito kuṇḍalinī yoga, il cui sovrabbondante apparato simbolico andrà a fornire il gergo tecnico alle molte pratiche dell’haṭhayoga più tardo.
Costanza Ceccarelli, 2017